Castrum Novum Piceni

Il nettare e la luce

La Colonia Civium Romanorum di Castrum Novum fu fondata negli anni immediatamente successivi al 290 a.C., anno di Roma 463, nell'area dell'odierna cittadina di Giulianova.

Nell'Epitome di Tito Livio, Libro XI, si riferisce che, in seguito alla rapida e sanguinosa campagna condotta dal Console Curius Dentatus (ultimo atto della Terza Guerra Sannitica, che nel 295 a.C., con la celebre Battaglia del Sentino, segnò la definitiva sconfitta della alleanza antiromana, composta dagli eserciti sannitici, etruschi, sabini, umbri, lucani e gallici), colonie dedotte, le prime del territorio mesoadriatico, furono: la "nostra" Castrum, Sena Gallica e Hatria.

Coerente con il programma di assorbimento e di ristrutturazione del territorio assoggettato fu l'apertura di importanti vie di comunicazione, come la famosa Via Caecilia, creata, forse, nel 284 a.C., anno del consolato di L. Caecilius Metellus Denter. Naturalmente, nel tracciare le strade furono privilegiati i corsi fluviali, la linea di costa (lungo l'attuale ferrovia) ed i molti fossati. L'importanza delle grandi vie di comunicazione, in particolare per lo sviluppo del commercio, è testimoniata dal proliferare, tra III e II secolo a.C., degli insediamenti rustici nelle fasce costiera e pedecollinare dell'agro di Castrum Novum (ager castranus).

Tutto questo, per dire che l'alba del nostro territorio fu tutt'altro che quieta, e che in esso, lungo le sue arterie, scorreva del nettare diVino, generatore e simbolo della sua vitalità commerciale. Lungo la strada che, dal ramo settentrionale della Via Caecilia (quello che, per intenderci, seguiva il corso del fiume Tordino), attraversato il centro nevralgico di Castrum, percorreva la linea di costa, l'esistenza di un sistema di fattorie e villae dimostrerebbe, in effetti, lo sfruttamento intensivo del suolo. Ed il suolo che meglio si prestava alla coltivazione vitivinicola "si palesò" nel territorio dell'odierna Tortoreto Lido. Ancora oggi, quel territorio amministrativamente dipendente, in epoca romana, da Castrum Novum - i suoi confini erano delimitati a nord dal torrente Vibrata, ad ovest dall'ager di Interamnia e a sud dal fiume Tordino - mostra le vibranti tracce della centuriazione romana.

Nel suddetto territorio si produceva dell'ottimo vino Piceno. Il vino Piceno, nelle qualità del palmense e del pretuzio, nei tempi antichi godette di ottima fama, forgiata dalla stima di grandi autori latini e greci. Polibio, ad esempio, parlando del «vino dei Picenti» nel Libro V delle Storie, introduce termini che segnalano o quantomeno lasciano presupporre la conoscenza (indubbiamente precoce) da parte di quel popolo, dei concetti di invecchiamento e di annata, nonché dei procedimenti di cottura del mosto (tradizione, quest'ultima, tutta marchigiana e abruzzese, o forse dovremmo dire "marcuzzese"). Più precisamente, lo storico greco vissuto nel II secolo a.C. riferisce che Annibale, giunto nel territorio dei Piceni, «sostenne l'esercito con i vecchi vini di cui era grandissima copia in quella provincia»; e che i cavalli, colpiti da un'improvvisa epidemia, furono «curati con porzioni di vino caldo […]».

In sostanza, il nettare di Castrum Novum e più in generale delle regioni mesoadriatiche, era buono, cospicuo e, stando a Polibio, medicamentoso e leggendario. Tuttavia, i nostri concittadini di epoca romana non producevano soltanto vino, e contestualmente anfore (fatto il contenuto, si rese necessaria la produzione del contenitore), ma, molto probabilmente, anche lucerne.

Per comprendere meglio la storia di questo terzo prodotto, ci serviremo, appunto, di un ideale lucerna, che ci accompagnerà negli abissi della Storia, sino al cuore pulsante di Castrum, situato nei pressi dell'attuale Bivio Bellocchio.

Qui, infatti, la campagna di scavo del 1989 ci offrì un ritrovamento straordinario: numerosissime lucerne, oltre duecento, tutte nello stesso luogo. Molte erano integre e mai usate, altrettante erano ricostruibili, altre ancora frammentate dalle annuali arature. La disposizione relativamente ordinata degli oggetti al momento del loro recupero, nonché la notizia del rinvenimento di consistenti tracce di bruciato indicanti la presenza di un tavolato ligneo di appoggio, offrono ben più che la semplice suggestione di trovarsi alla presenza di una bottega artigiana. Al tempo dell'ipotetica bottega, le "nostre" lucerne (cronologicamente inquadrabili tra l’età augustea e i primi anni del II sec. d.C.), attraverso i temi più svariati avrebbero fatto bella mostra dei loro dischi figurati. Oggi, tali raffigurazioni ci rendono, tra le altre cose, uno spaccato della società del tempo: abitudini, costumi, religione, divertimento, moda, architettura... Ma di uno studio pur sollecitato, non c'é traccia; non è esagerato dire che, in un'epoca dominata da un presente fagocitante, quelle lucerne potrebbero davvero illuminare tanti aspetti ancora sconosciuti dell’antica storia di Castrum Novum.

Nel film Treno di notte per Lisbona, un libro nascosto tra le pieghe del passato giunge, per caso, all'attenzione del protagonista. Un brano del misterioso libello recita: "...lasciamo sempre qualcosa di noi quando ce ne andiamo. Restiamo lì anche quando siamo andati via."

Ecco! I nostri progenitori castrani sono ancora qui, nel corpo di pietra e di ceramica o nelle latebre del nostro spirito, laddove solo le radici possono giungere. Ancora oggi, essi, attraverso quel che resta del loro segno e del loro palpito, ci parlano e ci mostrano la polla di questa nostra storia, il solco tracciato e la luce di cui rifulgevamo.

Occorre solo spegnere le ruspe e... vedere ed ascoltare un po' meglio.

Irene Lattanzi e Daniele Di Massimantonio